martedì 23 dicembre 2014

Cuba, futuro al bivio tra conquista capitalista e riconquista cattolica: colonia Usa o protettorato Vaticano?

Fonte:L'Huffington Post

di Piero Schiavazzi



Come molti allievi dei gesuiti, Castro ha perso la fede ma è rimasto “Fidel” al Papa. Quando al culmine della rivoluzione cancellò il Natale, non chiuse però la nunziatura. Sfrattando Dio dal calendario ma conservando ai suoi emissari un posto nello stradario. Che a differenza delle rampe sovietiche non è stato mai rimosso. Per lanciare il suoi “missili” al momento giusto.
Se il mondo esalta in queste ore le virtù del triangolo Washington - Vaticano - L’Avana, sullo sfondo risalta invece, sin d’ora, il tratto geometrico di un confronto a due: tra il Papato e l’Impero. Dove Cuba si consegnò a Francesco per non soccombere. Salvando mezzo secolo di battaglie. Mentre Obama, il liberal, si rassegnò a trattare con Bergoglio, il libertador. Per non perdere la metà del Continente, che in lui avverte l’impeto trascinante di Bolivar e, in incognito, il fascino magnetico di Guevara. Come si addice a un Papa che inneggia profetico alla “Patria Grande” e incita i poveri alle lotte sociali: “Continuate con la vostra lotta. Fate bene a tutti noi”. Versione ecclesiale del celebre “Hasta la victoria siempre”.
“In articulo mortis” il regime ha battezzato una revolución asfittica per consunzione e asfissiata dalle sanzioni: assicurandole la vita eterna dei libri di storia, insieme a una uscita onorevole dalla scena. Il líder maximo, al massimo del paradosso, ha scelto quale erede il pontefice sommo. L’unico a disporre di un sogno alternativo ai brand e al business dell’American Way, da Wall Street alla Coca – Cola, che già si apprestano a sbarcare in forze. Il solo a proporre il disegno di una società egualitaria, sull’orizzonte del millennio, oltre le novanta miglia che separano l’isola da Key West: come dire la chiave dell’Occidente e le chiavi del Regno dei Cieli. Meglio annessi da Roma che assorbiti dagli USA. “Todos americanos”, nello spagnolo di Buenos Aires, non significa necessariamente “todos capitalistas”.
È la prima volta in due secoli di dottrina Monroe che l’America Latina, di fronte al potente vicino settentrionale, si rapporta univocamente attraverso la voce di un solo leader, privo di complessi d’inferiorità e dotato della stessa statura internazionale, colmando un antico divario psicologico. Non solo Cuba quindi, ma un moto di autostima che dal Messico raggiunge Capo Horn. Novità che Barack Obama ha percepito subito, nel suo faccia a faccia con Francesco del 27 marzo, regolandosi di conseguenza. In un singolare rovesciamento anagrafico: tra un vecchio pontefice in folgorante ascesa e un giovane presidente al principio della discesa. In cerca di un tramonto luminoso.
Con l’ingresso di Bergoglio il Vaticano è diventato, in certo senso, la “Casa Bianca” del Sudamerica: il simbolo unitario, fisicamente centralizzato e spiritualmente globalizzato, che mancava per sentirsi, e sedersi, alla pari con i gringos. 
Coloro che avevano visto nel trasloco a Santa Marta una manifestazione di umiltà estrema, ne colgono adesso il risvolto e l’ambizione suprema. Dopo diciotto mesi senza inquilino, il Palazzo Apostolico ha ritrovato destinazione d’uso e vocazione, in veste di “Onu pro tempore”. Passando dalla guerra segreta di Vatileaks ai segreti di una trattativa di pace, dove i governi si confessano e assolvono a vicenda.
Sul piano geopolitico in definitiva il conclave si è chiuso oggi, estendendo ai Caraibi, dal microcosmo della Sistina, la saldatura ortopedica fra il Nord e il Sud che aveva condotto all’elezione di Francesco: il Papa è “un esempio di come il mondo dovrebbe essere”, ha chiosato a riguardo il Presidente, ben consapevole tuttavia che non sarebbe un mondo a stelle e strisce.
Eletto con il voto decisivo dei cardinali yankee, Bergoglio non ha ricambiato eleggendo a modello il Washington Consensus. Mai, come abbiamo scritto, un pontefice era sembrato tanto vicino e lontano al tempo stesso. Provenendo dal medesimo emisfero e contestualmente da quello opposto: sudista prima che occidentale. Teorico di una democrazia sostanziale, fondata sul popolo e garantita dallo stato sociale, in luogo di quella formale, centrata sull’individuo e sequestrata dai poteri forti.
Se Giovanni Paolo II, nel 1997, aveva restituito il Natale ai cubani, Francesco in aggiunta gli ha fatto trovare l’America sotto l’albero. Un dono “a sorpresa” per l’isola, nel senso più ampio e ambivalente del termine. Al bivio tra un futuro di colonia USA o di “protettorato” vaticano. Terra di assai probabile conquista del capitalismo e delle sette protestanti, ma anche di una possibile riconquista cattolica. Da cui rilanciare il mito della terza via e del mondo “come dovrebbe essere”.

sabato 23 agosto 2014

In questa guerra degli orrori io scelgo quelli dell'Isis, di Massimo Fini

Ma è mai possibile che in Italia appena uno pone una questione un po’ seria, anche se scomoda, debba essere sommerso dal coro di indignazione bipartisan come sta capitando al deputato Cinquestelle Alessandro Di Battista (‘abominevole’, ‘pericoloso’, ‘ignorante’, ‘nemico interno’ fino al ‘minchione’ appioppatogli da Francesco Merlo)? Eppure Di Battista affronta un nodo cruciale per capire la nascita, la crescita e l’affermarsi del radicalismo islamico: di fronte a un nemico invisibile o irraggiungibile, perché ti bombarda con robot teleguidati da migliaia di chilometri di distanza o con caccia che, senza una contraerea, non possono essere colpiti, che cosa resta a una resistenza? O subire passivamente o darsi al terrorismo. La questione non è nuova e prende il nome di ‘guerra asimmetrica’ che si ha quando la sproporzione tecnologica degli armamenti fra due contendenti è tale che uno può colpire e l’altro solo subire o opporsi col proprio corpo. Tutte le guerre occidentali degli ultimi anni sono state ‘asimmetriche’ e hanno incoraggiato anzi imposto metodi terroristi ai nostri avversari.
La prima fu in Afghanistan. Gli afgani, storicamente, non sono mai stati terroristi, tantomeno kamikaze. Il terrorismo è estraneo alla loro tradizione. Sono dei guerriglieri, che è cosa diversa. Nel 2006 ci fu un’importante riunione fra i comandanti talebani e il Mullah Omar. I comandanti dissero, pressappoco, al loro leader: “Guarda che noi non possiamo combattere solo con le tecniche della guerriglia. Come ingaggiamo uno scontro arrivano i bombardieri della Nato e per un nemico che uccidiamo perdiamo quindici uomini. Non è possibile andare avanti così.” Chiesero quindi al Mullah l’autorizzazione ad utilizzare anche il terrorismo. Omar, sulle prime, era contrario. Per due motivi. Perché, appunto, il terrorismo è estraneo alla cultura afgana e a lui, custode fanatico della tradizione del suo Paese, la cosa non piaceva. Il secondo motivo era molto più pragmatico. L’attentato terrorista, anche se mirato a obbiettivi militari o politici, provoca inevitabilmente anche vittime civili. E a tutto avevano interesse i Talebani tranne che a inimicarsi la popolazione sul cui appoggio si sostengono. Ma alla fine dovette cedere di fronte all’evidenza.  Nacque così il terrorismo interno afgano.
Noi oggi ci scandalizziamo per la ferocia dei guerriglieri dell’Isis (che chiamiamo ‘terroristi’ perché tutti coloro che ci combattono sono, ai nostri occhi, terroristi, solo noi non lo siamo) che mozzano le teste ai nemici e uccidono anche i bambini (che li seppelliscano vivi mi sembra una leggenda propagandistica tipo quella d’antan che voleva che i comunisti mangiassero i bambini). Ma nella prima guerra del Golfo, nel 1990, i bombardamenti americani hanno ucciso 160 mila civili, fra cui 39.812 donne e 32.195 bambini (dati al di sopra di ogni sospetto: del Pentagono) che non sono meno bambini dei bambini curdi e sciiti o dei nostri bambini. Ma nessuno, in Occidente, si scandalizzò. Se devo scegliere in questa guerra degli orrori scelgo quelli dell’Isis. Perché perlomeno il guerrigliero si implica personalmente, mentre il pilota che telecomanda il drone da Nellis nel Nevada non corre alcun rischio e, dopo aver fatto la sua bella strage, se ne torna a casa dove la sua linda mogliettina americana gli ha preparato una cenetta.
Ci scandalizziamo, oggi, per la persecuzione degli yazidi. Gli yazidi, sia pur di religione sufi, sono curdi iracheni. E per dieci anni la Turchia e Saddam Hussein, in combutta fra di loro, hanno massacrato i curdi iracheni, e quindi anche gli yazidi, la prima col pieno appoggio degli americani che han sempre temuto che l’indipendentismo curdo-iracheno innescasse quello dei curdi di Turchia, la loro grande alleata nella regione (in Turchia i curdi sono 12 milioni), il secondo foraggiato direttamente dagli Stati Uniti che gli fornirono anche le famose ‘armi di distruzione di massa’ in funzione antiraniana e , appunto, anticurda. Ma in Occidente tutti facevano orecchio da mercante. Quando ci fu, nel 1989, la strage nel villaggio di Halabya (5000 curdi ‘gasati’ in un sol colpo) diedi la notizia sull’’Europeo’. Ma nessuno, almeno in Italia, la riprese. Saddam era un amico.
Nel suo ‘excursus’ storico, tutt’altro che ‘scombiccherato’ come scrive Merlo, Di Battista ricorda che è dal 1920 che gli occidentali, prima gli inglesi e i francesi, poi anche gli americani, fanno il bello e il cattivo tempo in Medio Oriente e altrove. Proprio l’Iraq è una creazione cervellotica degli inglesi che nel 1930 misero insieme in uno Stato tre comunità che non avevano niente a che vedere fra loro: curdi, sunniti e sciiti. Ma rimaniamo a tempi più recenti. Sono quindici anni che l’Occidente democratico è all’attacco del mondo arabo-musulmano. Nel 2001 c’è stata l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan che ha provocato una guerra che dura da quattordici anni, la più lunga degli ultimi secoli, e un numero di vittime civili incalcolabile, incalcolabile in quanto non calcolato perché degli afgani, non essendo arabi né tantomeno cristiani o ebrei, si può fare carne di porco. I Talebani dopo aver sconfitto i ‘signori della guerra’ e posto fine alla guerra civile avevano riportato l’ordine e la legge, sia pur una dura legge, nel Paese. Ma non erano democratici e quindi andavano spazzati via.
Nel 2003 c’è stata l’invasione e occupazione dell’Iraq che ha provocato, direttamente o indirettamente, dai 650 ai 750 mila morti. Ma Saddam, che avevamo sostenuto per vent’anni, era un dittatore che non ci piaceva più. L’Iraq doveva diventare democratico. Dopo che gli americani se ne sono andati è scoppiata la guerra civile tra sunniti e sciiti. C’erano centinaia di morti alla settimana, però la cosa ai sensibili democratici occidentali non interessava più. Eppure è proprio da quella situazione, combinata col conflitto siriano, che nasce l’Isis, una sorta di internazionale del radicalismo islamico dove, oltre a iracheni e siriani, convergono libici, libanesi, somali e anche europei. Ma della pericolosità dell’Isis i democratici occidentali, impegnati in altri affari, non si sono resi conto. Io la denunciavo già in un articolo sul ‘Fatto’ del 21 giugno: “Guerra in Iraq: trappola per l’Occidente”. Le ‘teste d’uovo’ occidentali (e anche papa Bergoglio) se ne sono accorte solo un paio di settimane fa.
Nel 2006/2007 c’è stato l’attacco, per interposta Etiopia, alla Somalia dove le Corti Islamiche (una sorta di talebani africani) avevano sconfitto i ‘signori della guerra’ locali e come in Afghanistan riportato l’ordine e la legge, sia pur una dura legge, in quel Paese. Ma le Corti non erano democratiche. Dovevano essere eliminate. Ora la Somalia è in piena guerra civile.
Nel 2011 c’è stato l’attacco alla Libia del  dittatore Gheddafi, con cui avevamo fornicato fino al giorno prima. Ma bisognava portare la democrazia anche in quel Paese. E adesso la Libia è nel caos più totale.
Il fatto è che l’Occidente democratico dopo aver sconfitto i totalitarismi del Novecento è diventato a sua volta totalitario e pretende di esportare i propri valori, la propria ‘way of life’ e soprattutto il proprio modello economico in tutto l’universo mondo. E’ quello che in un libro fortunato, ho chiamato ‘Il vizio oscuro dell’Occidente’. Ed è proprio questa pretesa di omologazione universale, questa pressione ossessiva, militare, economica, ideologica, culturale (la donna musulmana deve assimilarsi a quella occidentale, eccetera) che evoca un radicalismo islamico che reagisce con un ideologismo altrettanto totalitario. Anche un musulmano moderato a furia di sentirsi incalzato dall’Occidente diventa un estremista.
In quanto alla maestrina Merlo, grande esperto di geopolitica benché non si sia mai letto un suo reportage dall’estero, vorrei che ci spiegasse perché definire i curdi, gli sciiti e i sunniti tre comunità profondamente diverse fra loro sia un ‘errore da matita blu’. Attendiamo ulteriori lezioni.
Il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2014
Massimo Fini

venerdì 27 giugno 2014

Grande guerra: lo spirito d'Europa


di MARIO FIORIN
Questa settimana a Sarajevo il clou degli eventi sul centenario dall'attentato di Sarajevo. Abbiamo incontrato Egidio Ivetić, che insegna storia dell'Europa orientale all'Università di Padova
A Sarajevo sono in programma diverse iniziative in occasione del centenario dell'attentato di Sarajevo. Vi sono pareri critici sul programma, in particolare per il timore che vengano enfatizzati gli aspetti celebrativi...
Una premessa: sull’interpretazione del 28 giugno si è scritto parecchio negli anni ’50-’60, in quanto vi si è visto l’origine della guerra che ha poi portato alla nascita della Jugoslavia. Poi, col tempo, l’interesse si è sopito e il tema della Prima guerra mondiale è stato marginale nel dibattito pubblico.
In Croazia ad esempio non vi è alcun interesse. La Bosnia Erzegovina invece è stata investita da queste celebrazioni e qualche libro uscito di recente ha nuovamente fatto emergere la tesi su una presunta responsabilità da parte della Serbia, per aver armato i giovani che hanno compiuto l’attentato, collegando poi queste responsabilità a quelle relative agli anni ’90. Francamente mi trovo scettico in merito, non trovo nessuna relazione.

Dossier 

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1914-2014, centenario dall'inizio della Grande guerra. OBC propone in un  dossier approfondimenti, analisi, interviste. Per seguire il dibattito nei Balcani e in Europa. Per contribuire a non dimenticare la generazione perduta.
In generale, nel ricordare il centenario dell’attentato, c’è un rifiorire di stereotipi: Balcani come zona in ebollizione, la polveriera d’Europa. Un altro aspetto importante: l'accalcarsi di tante iniziative rischia di essere vissuto anche come un’intrusione da parte dei cittadini di Sarajevo.
A livello europeo vi è una riflessione sul ’14 ma che prescinde dalla riflessione sui venticinque anni dalla fine dei regimi dell’Est, e su cosa questo ha significato per quell’Europa che si è cercato di costruire nel Novecento.
Vi è quindi il rischio di soffermarsi su un singolo episodio, in un singolo luogo, senza allargare lo sguardo?
L’evento del 28 giugno 1914 fa parte della narrazione, dell’identità e identificazione culturale europea. Non c’è manuale di storia dove non si parli dell’assassinio. Però riportarlo all'interno di una narrazione dove viene identificata una “zona da cui viene fuori il male” non mi pare il caso; c’è anche attualmente una zona di forte crisi, una zona di frattura o “faglia”, che è l’Ucraina, però nessuno parla di una “zona da cui viene il male”.
Bisogna aggiustare la prospettiva: i Balcani sono stati un'area dove si sono scaricate le tensioni europee. La Prima guerra mondiale è di fatto la terza guerra balcanica; soprattutto dopo il 1908 vi fu un convergere di pressioni, perché si era rotto l’equilibrio tra Russia ed Austria-Ungheria e la situazione cominciò a peggiorare drasticamente. L’equilibrio non si è rotto a causa dell’attentato, ma la rottura era già nell’aria. C’erano tutte le precondizioni per la guerra.
Su Gavrilo Princip vi sono pareri discordi, accentuati in occasione del centenario. Ci può essere una lettura condivisa sugli eventi e sulla sua figura?
Quello del ’14 non fu il primo attentato contro un sovrano o un membro di una casa reale: nel 1881 era stato ucciso lo zar, nel 1900 Bresci aveva assassinato Umberto I. Nel 1910 uno studente serbo/bosniaco aveva sparato a Zagabria contro il Governatore della Croazia senza ucciderlo, e poi si era suicidato. Il giovane era divenuto un eroe: l’eroe della gioventù jugoslavista. C’era stato un secondo attentato nell’autunno del ’13, come conseguenza dell’euforia delle vittorie serbe. Anche in questa occasione nessuno aveva perso la vita, però il gesto aveva avuto una grande eco.
A quel punto gli aderenti alla Giovane Bosnia, che oscillava tra un’idea di rivoluzione culturale e intenzioni terroristiche, cominciarono a progettare qualcosa. A differenza di altri attentati, che erano stati compiuti da una sola persona, quello del ‘14 fu programmato da un gruppo - tra l’altro, era un musulmano quello che procurò le armi - e da lì è forse nata l'idea che si sia trattato di un complotto.
Gli aderenti alla Giovane Bosnia avevano un’idea di Jugoslavia. Comunque vi era un collegamento, anche se non netto, con l’organizzazione segreta degli ufficiali serbi “La mano nera”, quella che stava dietro l’atroce assassinio del re di Serbia Alessandro Obrenović nel 1903. Non è dimostrato però che si sia trattato di un complotto, organizzato o sostenuto dalla Serbia.
Princip disse in prigione che aveva ammazzato Francesco Ferdinando, tra l’altro, perché pensava che quest'ultimo potesse creare una soluzione “trialista”. Ma questa era solo propaganda: attorno a Francesco Ferdinando giravano infatti voci secondo le quali, una volta diventato imperatore, avrebbe concesso dei privilegi, delle autonomie, una sistemazione che prevedesse una sorta di Jugoslavia asburgica. Quindi è stato affermato che questi ragazzi - erano poco più che liceali - abbiano sparato anche perché si opponevano a una soluzione del genere, volendo invece una soluzione massimalista, cioè la disgregazione dell’Austria-Ungheria e la creazione di uno stato slavo-meridionale (jugoslavo) a direzione serba.
In questa rozza revisione dei fatti si dimentica però che in quel momento la Serbia aveva una politica assolutamente balcanica, che non guardava a occidente. Tutta la concentrazione era rivolta verso il meridione per due obiettivi. Primo: integrare i territori che aveva appena acquisito. Secondo: trovare uno sbocco marittimo, però nel meridione, cioè nella zona di Ragusa, oppure a Lezhë, a sud di Scutari.
Qualche pubblicazione, anche ora, torna su questa tesi. Nello spazio direttamente coinvolto, cioè la ex Jugoslavia, è però da ribadire un disinteresse totale in questo momento sulla questione, se non da parte degli storici serbi, intenti a rigettare qualsiasi tesi delle responsabilità della Serbia, che a me sembrano assolutamente prive di significato.
Per cogliere il “significato” di quanto avvenne a Sarajevo non vi sono più soltanto gli storici, ma c’è il mondo della cultura in generale, c’è la politica. Quali riflessioni si possono trarre nell’occasione della ricorrenza del centenario?
Io credo che il centenario sia un avvenimento, non solo per l’area balcanica, ma di portata europea e di conseguenza occorre una grande riflessione europea, ma non tanto sull’attentato o su chi ha armato gli attentatori. Dopo l’attentato vi fu un “effetto domino” perché vennero al pettine in due-tre giorni tutti i nodi della politica europea dei cinquant’anni precedenti.
In sintesi dobbiamo soprattutto riflettere su che cos’era l’Europa nel’14. Esaminando il clima politico europeo, maturato dal 1908 in poi, credo ci fosse una tendenza all’autodistruzione. Era un'Europa declinata per imperi e nazioni e non vi era alcuno spirito europeo.
Gli avvenimenti del ’14 e la Prima guerra mondiale possono essere visti in rapporto alla situazione attuale, per trarre delle lezioni dal passato? O vi è il rischio, quando si guarda al passato con l’occhio rivolto al presente, che si vada a deformare quella che era la situazione storica?
Ricordo quello che mi hanno insegnato a scuola da bambino: Historia magistra vitae . Per anni, personalmente ero scettico. Ero scettico anche durante le guerre jugoslave. Adesso come adesso, posso dire: guardando gli ultimi cent’anni, il primo insegnamento è che non bisogna ripetere e non bisogna sottovalutare la scelta bellica: un percorso di pace è sempre meglio di un percorso di guerra.
Secondo insegnamento: bisogna guardare a questi accadimenti nel loro sviluppo temporale, per non ripetere gli errori e per costruire una visione storica, cioè avere un’idea verso il futuro che deriva da una prospettiva storica.
L’interesse per le cosiddette visioni storiche è scemato anche perché alcune di queste erano il nerbo di regimi totalitari che hanno portato alle carneficine della Seconda guerra mondiale. Il decostruzionismo ha appunto decostruito il concetto di visione storica. Ma oggi ci troviamo di fronte a una Russia che sta lavorando sulla propria visione storica. Anche gli americani vivono di narrazione. Noi europei non abbiamo invece alcuna narrazione comune. Eppure ce n'è bisogno e nel caso europeo la narrazione credo possa derivare dalla giusta considerazione di tutte le opzioni possibili.
Lei sostiene che nel ‘14 si sono scaricate sui Balcani le tensioni europee, mentre negli anni ’90 le tensioni erano tutte interne alla (ex) Jugoslavia. Tensioni che non sono sopite... 
Quando un sistema federale è messo sotto pressione economica, le varie unità cercano di venirne fuori da sole, cercano sbocchi alternativi. Cosa del resto non del tutto estranea all'Europa di oggi. Il Regno Unito, con grossi problemi interni, sta tentando la strada di un riposizionamento globale. In questo non gli interessa l'Europa. Inoltre in seno all’Europa è evidente la divisione nord/sud. Una partizione che è un cliché che si ripete: c’era nella Jugoslavia, dove le élite hanno scaricato questa tensione puntando sul nazionalismo.
Ma quale atteggiamento verso i Balcani, cosa ci si può aspettare dalle istituzioni europee?
Si rimarrà nell'ambito delle più classiche dinamiche dell’integrazione europea, cioè: prendiamoli dentro, e poi vediamo cosa esce fuori.
E l’Europa, messa come sappiamo, è in grado di fare questo?
No. Anche l’integrazione di Romania e Bulgaria non si è pienamente realizzata. Sono arrivati tardi, poi è cominciata la crisi del 2008. Nell’Europa di oggi poi oltre alla dicotomia nord/sud, vi è un sud-est con problematiche molto complesse.
Sono purtroppo scettico, non credo molto nell’integrazione. Ad esempio in Serbia, paese in coda per l'ingresso, si presentano dinamiche interne molto complesse che prima non c’erano: criminalità organizzata, mafie trasversali tra Kosovo, Serbia e Montenegro. Questa è la situazione locale. E a fronte di questo nei paesi Ue non c’è più uno spirito favorevole all’integrazione. Si tende a dire, sono problemi loro.
Poi ci sono altri elementi su cui riflettere. Una notizia recente: ai primi di giugno, su iniziativa europea, è stata bloccata la costruzione del South Stream, il gasdotto che doveva passare per il Mar Nero e la Bulgaria e doveva fare della Serbia il centro di distribuzione del gas russo. È stato sostituito da un progetto che costa sei volte di meno: una condotta che va dall’Azerbaijan e passa per Turchia, Grecia, Albania, e va verso nord lungo la dorsale adriatica. La Croazia diventerà così il centro di questo nuovo flusso, tagliando fuori Serbia e Bulgaria.
Vi è quindi una ridefinizione dell’Europa attraverso la prospettiva di autosufficienza energetica. E' questa la questione politica più importante per l’Europa dei giorni nostri.
Quindi avremo ancora una situazione in cui c’è chi sta al di qua e chi sta al di là?
È interessante notare come la Croazia, che era periferia, con la scelta relativa al South Stream diviene un nodo energetico cruciale, si può dire divenga occidente. La Serbia, che doveva seguire quel destino, rischia di venir tagliata fuori.
La Croazia, secondo me, è ormai il litorale d’Europa. Da Bratislava all’Istria ci sono sei ore, da Vienna cinque, da Monaco sei, da Praga e Cracovia sette-otto. Ed è uno degli elementi cruciali nel processo molto dinamico di ridefinizione dell’Europa centrale, una zona sempre più prospera: il suo ingresso nell’Ue sta definendo il confine meridionale di questa Europa centrale. E io temo che nei Balcani, a causa del South Stream che viene bloccato e che doveva essere anche un fattore d’integrazione, possano tornare vecchie tensioni.
Vi è una generazione di intellettuali, di scrittori nell’area linguistica serbocroata che hanno spinto per integrare lo spazio ex-jugoslavo. Ma la realtà politica non è così, i politici si stringono le mani e poi i processi integrativi rallentano. Attualmente abbiamo uno scollamento, in Italia e ovunque, tra gli intellettuali più dinamici, più giovani che lavorano sull’integrazione dello spazio, sull’integrazione culturale, e la politica che non dà alcuna risposta. Scenari drammatici per il futuro? No, ma il possibile percorso d’integrazione si è ora interrotto.

venerdì 30 maggio 2014

La vittoria a metà dei nazionalisti fiamminghi in Belgio.

Fonte:Limes-Rivista di geopolitica 

di Roberto Dagnino

Alle elezioni federali e regionali ha prevalso l'N-va di Bart de Wever, ma democristiani, liberali e socialisti hanno un'arma tutt'altro che spuntata nelle consultazioni per il nuovo governo.



“Formare una coalizione senza di noi sarà molto difficile, se non impossibile”. Una dichiarazione sorprendente, se non altro perché rilasciata dal leader di un partito che le elezioni federali e regionali di domenica scorsa in Belgio non le ha vinte.

Ma Kris Peeters, governatore fiammingo uscente, era evidentemente euforico. In primo luogo, perché il suo partito, i democristiani del Cd&v, hanno raggiunto l’obiettivo di superare la soglia del 20% dei voti. In secondo luogo, perché la composizione finale sia della Camera dei rappresentanti sia del parlamento fiammingo attribuisce al suo partito una posizione che in francese si definirebbe "incontournable" (imprescindibile).

I bei tempi di Gaston Eyskens e Leo Tindemans, premier che potevano contare su maggioranze larghissime nelle Fiandre, sono ormai lontani, questo è certo. Tuttavia, a Peeters e al presidente del partito Wouter Beke va il merito di aver limitato i danni ancorando Cd&v a un ruolo - quello di ago della bilancia - che gli consente di restare agevolmente al cuore della vita politica belga.

Le elezioni del 25 maggio erano state definite "la madre di tutte le elezioni" - regionali, federali ed europee cadevano quest’anno nella stessa giornata. Come da previsioni il trionfatore è stato Bart de Wever, sindaco di Anversa e leader della Nuova alleanza fiamminga (N-Va): 4 seggi in Europa (ne aveva 1), 33 alla Camera (27), 43 al parlamento fiammingo (16) e un quinto dei seggi nel nuovo Senato a elezione indiretta.

Solo a Bruxelles i nazionalisti fiamminghi hanno dovuto lasciare spazio ai liberali dell’Open Vld, arrivati primi tra l’elettorato neerlandofono. Ma a tutti gli altri livelli istituzionali è la N-Va a emergere indiscutibilmente come il partito di maggioranza relativa. A De Wever e alla sua formazione spetta pertanto in prima battuta l’incarico di elaborare un programma di governo intorno al quale costituire una maggioranza.

Proprio la posizione di forza non assoluta dei nazionalisti rende così importanti i liberali (di entrambi i gruppi linguistici) e i democristiani (fiamminghi). Si tratta infatti delle famiglie politiche con la maggiore affinità ideologica con il programma della N-va. Lo stesso De Wever non ha nascosto nelle ultime settimane, nonostante una campagna dai toni accesissimi - che una coalizione di centro-destra rappresenterebbe la soluzione più "naturale". Ma il quadro si presenta complesso, soprattutto a livello federale.

De Wever dovrà in particolare fare i conti con il premier uscente Elio di Rupo, il cui Parti Socialiste(Ps) ha sì perso qualche punto percentuale ma è riuscito a mantenere il ruolo di primo partito francofono. Poco indietro arrivano i liberali del Mouvement Réformateur (Mr), che avevano fatto dell’esclusione dal potere degli onnipresenti socialisti e della riduzione dell’assistenzialismo dello Stato sociale belga i punti cardine della loro campagna elettorale. Non sorprende che le voci di un avvicinamento del Mr alla N-va si rincorrano ormai da diverso tempo. Così non è passata inosservata la rottura della storica alleanza tra Mr e nazionalisti valloni della Fdf. Inoltre, De Wever è andato via via sfumando la vocazione ufficialmente indipendentista del proprio partito.

Il nuovo credo dei nazionalisti fiamminghi è il "confederalismo", un concetto che deve ancora trovare una chiara traduzione istituzionale ma su cui, dietro le quinte, ragionano da tempo anche settori liberali e democristiani. In uno degli ultimi dibattiti elettorali in tv De Wever ha tentato - con dubbio successo - di chiarire la propria posizione al riguardo. In linea con le idee dell’Alleanza libera europea (Ale) - la famiglia europea in cui si colloca la N-va - il sindaco di Anversa ha auspicato un rapido rafforzamento dell’Ue: un’evoluzione che a suo parere porterebbe a un parallelo irrobustimento delle identità locali e regionali. A quel punto il Belgio - così come tutti gli altri Stati membri dell’Unione - finirebbe "inevitabilmente" per apparire superfluo.

Il Belgio si è appena lasciato allo spalle una riforma istituzionale molto sofferta che ne ha rafforzato ulteriormente il carattere federale e ha bene o male archiviato il ricordo del famigerato governo vacante, fra 2010 e 2011, con uno stallo durato ben un anno e mezzo.

I belgi devono forse aspettarsi un nuovo, forse lunghissimo braccio di ferro istituzionale? Non è detto. I partiti che non hanno nel proprio programma l’indipendenza delle Fiandre o il confederalismo  - di fatto, tutti i partiti con la sola eccezione della N-va e di un’estrema destra ormai ridotta al lumicino - si preparano infatti a partecipare alle trattative con De Wever con un’arma tutt’altro che spuntata.

Negli ultimi 3 anni il paese è stato governato da una "tripartita", ossia una grande coalizione di socialisti, liberali e democristiani. A conti fatti una riedizione della stessa coalizione sarebbe, numericamente parlando, non impossibile. Certo, ignorare fin dall'inizio la volontà di oltre il 30% dei fiamminghi sarebbe politicamente suicida.

Re Filippo, alla sua prima formazione di governo, pare condividere tale impostazione e ha provveduto, a sole 36 ore dalla pubblicazione dei risultati elettorali, ad affidare a De Wever un primo mandato esplorativo.

Il primo cittadino di Anversa è ben consapevole di essere un vincitore a metà: se finirà per alzare troppo la posta in gioco, come poté permettersi di fare strategicamente nel 2010, la N-va potrebbe ritrovarsi a mani vuote. Una scelta che contraddirebbe il chiaro mandato affidatole dagli elettori.

Martedì 3 giugno è previsto un nuovo incontro tra De Wever e il sovrano per fare il punto della situazione ma è assai improbabile che le condizioni politiche per un incarico ufficiale possano maturare così rapidamente.